Errore di prospettiva
Carlo era distrutto. Aveva lavorato con ritmi massacranti per tutta la giornata, lontano da casa, con persone ostili e dovendo risolvere grossi problemi. Non aveva pranzato, non aveva cenato, non ricordava nemmeno se era riuscito ad andare in bagno nelle ultime, durissime, 15 ore. Ancora pieno dei pensieri e delle preoccupazioni della giornata, i cui strascichi non accennavano a lasciare la sua testa ormai esausta, finalmente si era trascinato in stazione per prendere il treno di ritorno. Un ritorno lungo, anch’esso faticoso, ma che quantomeno aveva l’odore di casa: della sua casa, dove qualcuno lo aspettava, e dove non vedeva l’ora di mettere piede per trovare conforto e ristoro da quella giornata sfiancante.
Arrivato nel grande atrio scorse con sguardo ansioso il tabellone delle partenze alla ricerca del suo treno, e finalmente lo trovò. Era una riga tra le tante, nella griglia dei treni in partenza, ma aveva un non so che di familiare: era “il suo”. Il nome della città di destinazione, la sua città, lo faceva sentire quasi già arrivato; perfino il numero era meno anonimo degli altri: il treno 219, come la data del suo compleanno, lui che era nato il 21 di settembre. Era proprio il suo treno, forse la prima cosa amica in cui si imbatteva dall’inizio di quella giornata. Sul tabellone lesse “binario 15”: trovando forze residue che nemmeno sospettava di avere ebbe quasi uno scatto e si fiondò sulla banchina. Voleva essere il primo a salire sul treno 219 al binario 15: il suo treno, verso la sua casa.
Nell’attesa, il desiderio di salire finalmente sul treno e di dire “è fatta” superava anche la stanchezza. E così Carlo camminò avanti e indietro, quasi nervoso, per 7 lunghissimi minuti fino a che sentì una voce gracchiante annunciare il “treno in arrivo al binario 15”. “Ci siamo!”, si disse, e aguzzò lo sguardo per scorgere il treno che arrivava.
Inizialmente, Carlo pensò di non aver visto bene: il treno era ancora in lontananza, e non si vedevano bene i dettagli. Poi però il treno si avvicinò, imboccando proprio il binario 15. Carlo ebbe un sussulto; ricontrollò il biglietto, ricontrollò il tabellone: treno 219, binario 15. Era lui, nessun errore. Un sentimento misto di sconforto, senso di ingiustizia, ribellione, e chissà cos’altro si affacciò in lui: quel treno faceva schifo. Nemmeno nella seconda guerra mondiale usavano treni tanto fatiscenti. Vecchio, sporco, arrugginito, scrostato. Appena iniziata la frenata, Carlo dovette tapparsi le orecchie per alleviare il dolore che quello stridore gli provocava: peggio che centinaia di unghie che graffiassero una lavagna di ardesia. Quando però il treno si fermò e aprì le porte, arrivò il colpo di grazia: il treno puzzava di umanità sudata e sporca, la gente all’interno era talmente stipata che non si capiva come potesse esservi abbastanza ossigeno per tutti, non vi era un centimetro quadrato libero salvo che in un angolo del vagone, dove brandelli di carta igienica coprivano una macchia di vomito che qualcuno, evidentemente, non era riuscito a trattenere durante il viaggio, il che contribuiva alla sinfonia di odori che fin da fuori si percepiva. Dall’interno, poi, si sentivano le urla del capotreno che intimava ai viaggiatori di fare presto, di non sostare sui gradini, e altre indicazioni tutte corredate di sbuffi e imprecazioni e toni molto poco gentili.
Carlo non poteva credere ai suoi occhi, pensò di trovarsi in uno strano scherzo: dopo una giornata del genere, nelle condizioni in cui si trovava, dopo che aveva consumato tutto se stesso nel suo lavoro, c’era una sola cosa che desiderava più di ogni altra: prendere il treno verso casa, verso il riposo. Un solo, singolo, sacrosanto desiderio in una giornata tutta contro di lui. E nemmeno questo doveva ottenere? Doveva davvero essere così il treno che lo riportava a casa? Seriamente: non era abbastanza quello che aveva avuto in quella giornata? “Se c’è una giustizia, di certo si è dimenticata di me” pensò Carlo, mentre in lui lo sconforto e il disgusto per lo spettacolo orrendo di quel treno facevano posto, neanche troppo velatamente, ad una rabbia che a malapena riusciva a mascherare.
No. Così era davvero una presa in giro. Carlo si fece un rapido esame di coscienza e non trovò nulla, in quella giornata, che giustificasse un trattamento così meschino nei suoi confronti: non si era fatto il mazzo in quel modo per ritrovarsi a sera su quel treno, in quello schifo. Aveva diritto – diritto! – a tornare a casa in condizioni umane: seduto, senza puzza, senza camminare sul vomito altrui, su un treno che non cigolasse e che non perdesse pezzi. Ne aveva il diritto, la cosa era fuori discussione, e quello che si trovava davanti era un oltraggio che lo portava oltre la sua capacità di sopportazione.
Carlo stava ancora pensando a queste cose, confermando a se stesso il torto subito e incrementando la propria collera, quando scorse al binario 12 un altro treno che entrava in stazione. Il suo volto si illuminò: “ecco com’è un treno che si deve!”, pensò quasi rasserenato. Si precipitò 3 binari più avanti per vederlo più da vicino. Era una meraviglia: elegante, nuovissimo, quasi lucente nella sua imponenza. Arrivò silenzioso quasi viaggiasse sui magneti, frenò senza il minimo rumore e con una delicatezza mai vista prima. All’apertura delle porte, gli assistenti di viaggio si posizionarono di fronte ad esse nelle loro divise impeccabili, e salutavano con un sorriso ciascun passeggero che si apprestava a salire. Carlo si sorprese ad invidiare quei passeggeri: nessuno avrebbe accolto lui con tanto calore e tanta gentilezza; nessuno, sul suo treno, l’avrebbe fatto sentire così importante e desiderato.
La curiosità lo spinse a dare una sbirciata all’interno: un treno tanto bello doveva essere qualcosa di meraviglioso negli allestimenti. E non si sbagliava: i sedili erano in pelle, larghi, comodi, spaziosi. Potevano reclinarsi per permettere ai viaggiatori di riposare e – santo cielo! – alcuni avevano addirittura il poggiapiedi! Carlo non poteva credere che esistesse tanta bellezza e tanto comfort su di un treno. L’avevano sempre abituato ad accontentarsi di quello che c’era, l’importante – dicevano – non era il viaggio ma la meta. “Col cavolo, quelli non avevano probabilmente mai visto nulla di diverso da quel carro bestiame del binario 15” pensò Carlo, mentre la sua curiosità veniva attirata da avanzi di bottigliette e confezioni che facevano intuire – mannaggia a loro – che sul quel treno i passeggeri venivano pure serviti e riveriti, con snack e bevande e generi di conforto. Un viaggio così era tutta un’altra cosa: praticamente era come essere già arrivato a casa!
Come in un flash, il pensiero della casa sconvolse completamente il filo logico dei pensieri di Carlo, già compromesso dalla stanchezza e dello shock di ciò che aveva appena visto. Improvvisamente si ritrovò a pensare che forse viaggiare su quel meraviglioso treno poteva addirittura essere meglio che essere a casa: era servito, era coccolato, era tranquillo, e soprattutto avrebbe avuto tutto questo subito. Senza attese, senza viaggi, senza ulteriori intoppi. Subito. Valeva davvero la pena di farsi altre ore di viaggio in quelle condizioni disumane che lo attendevano sul treno 219, quando aveva lì a portata di mano qualcosa di paragonabile – se non migliore – della casa a cui voleva tornare? Questo pensiero si fece sempre più strada nella mente di Carlo, e più prendeva forma più lui non trovava altro che conferme di quella nuova idea. In un angolo remoto della sua testa risuonava sempre quel fastidioso ricordo degli insegnamenti ricevuti, quella cosa che l’importante è la meta e non il viaggio, ma improvvisamente si sentì come un cieco che apre finalmente gli occhi: finora l’avevano ingannato. Magari involontariamente, magari con buone intenzioni, ma non gli avevano raccontato tutto. Perché quel viaggio, su quel treno meraviglioso, quell’esperienza unica e stupenda e desiderabile… beh, quello poteva essere la sua meta. Si fermò a ripensare all’ultimo concetto che le sue sinapsi avevano messo insieme, e si sentì quasi come un intellettuale che definisce un nuovo criterio di pensiero: il viaggio è la meta. “Sono un genio!” – si disse scherzando tra sé, ma nemmeno troppo – questo sì che tiene insieme tutti i pezzi! Non devo rinunciare a una cosa bella, una cosa “per me”, in nome della stupida meta. Questa è la destinazione: voglio quel viaggio, e questa è oggettivamente una cosa buona per me. Guarda come sono ridotto, è il minimo a cui abbia diritto, non potrei nemmeno farcela sull’altro treno, sarebbe inutile anche provarci.
Soffocando all’istante qualsiasi replica che la sua parte razionale provava ad avanzare, chiuse il suo dibattito interiore e stabilì definitivamente il da farsi: prese gli ultimi soldi che gli erano rimasti e andò in biglietteria.
– “Un biglietto per il treno che è ora al binario 12, per favore. Nella classe più alta possibile”
– “Fino a dove, signore?”
– “Non lo so, non mi interessa, faccia lei”
– “Ma signore, io non posso sapere dove lei deve scendere. Anche il prezzo del biglietto cambia a seconda della stazione di destinazione”
– “Va bene, va bene, mi dia un biglietto fino al capolinea. Ma si sbrighi che ho fretta”
Carlo in realtà non aveva fretta. Aveva solo paura di cambiare idea, di non riuscire a tenere a lungo soffocati i dubbi che la sua ragione e il suo animo riportavano continuamente a galla. Per fortuna ottenne subito il suo biglietto, pagò la cifra (“che botta, ma se li vale tutti”) e corse al binario 12.
Salì sul treno ricevendo gli ossequi dell’assistente che sorridente lo accolse a bordo. Non vedeva l’ora di aver diritto a quel sorriso. Si sedette al suo posto, e reclinò il sedile almeno una decina di volte in tutte le posizioni possibili, compiacendosi di tutto quel lusso a sua disposizione. E quel che più lo faceva godere era l’idea del treno che aveva lasciato, quel ridicolo treno 219 al binario 15: l’idea che quei pezzenti fossero in piedi, sballottati, in mezzo a gente rozza e puzzolente, soffrendo come animali per ore, gli faceva gustare mille volte tanto le comodità che finalmente aveva a disposizione.
Il viaggio fu una delle esperienze più fantastiche che Carlo avesse mai vissuto: assaporò ogni singolo istante, sfruttò qualsiasi comfort che quel meraviglioso treno gli mettesse a disposizione, godette a fondo e a pieno di tutto quanto si era meritatamente concesso. Passarono le ore, e Carlo era davvero soddisfatto. Contento, sereno, rilassato, perfino il suo volto non mostrava più i segni della stanchezza di quell’orribile giornata.
Durante uno dei tanti momenti di relax in cui si era appisolato sul suo comodo sedile di pelle, sentì una comunicazione uscire dagli altoparlanti (la qualità dell’audio era talmente perfetta che sembrava di avere una persona in carne ed ossa a parlare!): “Termine corsa del treno, i viaggiatori sono pregati di scendere”. “Cavolo!” pensò Carlo, “di già?”. Si era talmente abituato a tanta bellezza che aveva perso la cognizione del tempo che passava. Guardandosi intorno realizzò che molti dei passeggeri erano già scesi alle fermate precedenti, ed erano rimasti ormai in pochi a viaggiare in quella sera nebbiosa.
Rapidamente Carlo raccolse le sue cose, si infilò la giacca e scese dal treno. Nessuno era lì a salutarlo festoso, e ci rimase anche un po’ male. “Con quello che ho pagato!”, pensò. In fondo al vagone scorse 2 o 3 assistenti che chiacchieravano dei fatti loro, ignorandolo come se ormai avessero terminato il servizio. La cosa, non se lo nascose, lo infastidì.
Carlo scese dal treno, che veloce richiuse le porte e spense le luci. Fine corsa.
In una frazione di secondo le cose apparvero a Carlo nella loro tremenda oggettività, e un senso di angoscia indescrivibile si impadronì di lui quasi gettandolo nel panico. Era solo. Al buio. In un luogo che ignorava completamente, non aveva nessuna idea di dove si trovasse, il treno aveva terminato la corsa, e non aveva niente. Perso.
Accadde allora ciò che era ovvio aspettarsi: nella sua mente prese forma l’immagine della sua casa, del suo camino, del suo divano, delle persone che là lo stavano aspettando inutilmente. E realizzò una cosa talmente ovvia che provò perfino un filo di vergogna: avevano ragione loro. Avevano ragione: era la meta l’importante. Sì, va bene, avrebbe fatto un orribile e scomodissimo viaggio su un treno indegno, ma a quest’ora sarebbe stato a casa. E invece no: invece si era fatto luccicare gli occhi da quella bellezza e quella comodità immediatamente disponibili, e ne aveva fatto la sua meta. Si era dimenticato che desiderava sopra ogni cosa tornare a casa, non importa in quali condizioni e con quale mezzo, e si era lasciato stravolgere le priorità fino a convincersi, sinceramente, di desiderare un viaggio comodo e confortevole, qualunque fosse la meta.
In un terribile e gelido secondo Carlo capì che era meglio un viaggio orrendo ma che lo portava alla meta, piuttosto che un viaggio comodo che ce lo allontanava. Ma adesso era troppo tardi.
Quella notte Carlo pianse tante lacrime da disidratarsi, si diede dello stupido, del credulone. Lui, sempre accorto e misurato, si era lasciato truffare da un’apparenza scintillante ma priva di sostanza. Proprio lui! Si era fatto fregare come un cretino, e ora era lontano da casa.
Carlo provò a dormire, invano. Le ore passavano e lui era sdraiato in stazione su una panchina di pietra senza poter chiudere occhio. Allora prese una decisione: abbandonò tutti i suoi bagagli salvo lo stretto indispensabile, e si incamminò verso il centro del paese. Lì, dal momento che si trovava in un territorio a lui sconosciuto nel quale non sapeva orientarsi, ad ogni incrocio chiese indicazioni. E procedette, strada dopo strada, chiedendo, a volte sbagliando e tornando indietro, finché – nemmeno lui sapeva quanti giorni aveva camminato – arrivò nella sua città. Distrutto, con i piedi piagati, le ginocchia doloranti e le anche che sembravano staccarsi ad ogni passo. Per non parlare della schiena. Ma era arrivato. Corse verso casa, dove scoprì che i suoi familiari lo aspettavano, sicuri che il suo ritardo dovesse avere un buon motivo, e gli buttarono le braccia al collo ancor prima che entrasse dalla porta.
A confronto di quel viaggio a piedi, immerso nel dolore fisico e nel rimorso dell’errore fatto come un principiante, a confronto di tutto ciò il viaggio sul treno 219 sarebbe stato una favola. Ma ormai non aveva più senso rimuginarci su. Era arrivato a casa. Probabilmente le sue anche non sarebbero mai più tornate come prima, probabilmente avrebbe portato per sempre i segni di quei giorni di cammino sfiancante e precipitoso. Probabilmente mille volte nella vita gli sarebbe ritornato il pensiero che se avesse seguito la sua ragione e il suo cuore, avrebbe preso il treno giusto e sarebbe arrivato subito a casa. Ma non importava: era felice di esserci tornato, anche se l’illusione della scorciatoia aveva reso tutto infinitamente più difficile. E forse quelle anche doloranti avrebbero per sempre funzionato come un campanello di allarme, qualora in futuro si fosse lasciato nuovamente abbindolare da qualche luccicante tentazione.
Quella notte Carlo dormì felice, come non accadeva da tempo.
Nell’attesa, il desiderio di salire finalmente sul treno e di dire “è fatta” superava anche la stanchezza. E così Carlo camminò avanti e indietro, quasi nervoso, per 7 lunghissimi minuti fino a che sentì una voce gracchiante annunciare il “treno in arrivo al binario 15”. “Ci siamo!”, si disse, e aguzzò lo sguardo per scorgere il treno che arrivava.
Inizialmente, Carlo pensò di non aver visto bene: il treno era ancora in lontananza, e non si vedevano bene i dettagli. Poi però il treno si avvicinò, imboccando proprio il binario 15. Carlo ebbe un sussulto; ricontrollò il biglietto, ricontrollò il tabellone: treno 219, binario 15. Era lui, nessun errore. Un sentimento misto di sconforto, senso di ingiustizia, ribellione, e chissà cos’altro si affacciò in lui: quel treno faceva schifo. Nemmeno nella seconda guerra mondiale usavano treni tanto fatiscenti. Vecchio, sporco, arrugginito, scrostato. Appena iniziata la frenata, Carlo dovette tapparsi le orecchie per alleviare il dolore che quello stridore gli provocava: peggio che centinaia di unghie che graffiassero una lavagna di ardesia. Quando però il treno si fermò e aprì le porte, arrivò il colpo di grazia: il treno puzzava di umanità sudata e sporca, la gente all’interno era talmente stipata che non si capiva come potesse esservi abbastanza ossigeno per tutti, non vi era un centimetro quadrato libero salvo che in un angolo del vagone, dove brandelli di carta igienica coprivano una macchia di vomito che qualcuno, evidentemente, non era riuscito a trattenere durante il viaggio, il che contribuiva alla sinfonia di odori che fin da fuori si percepiva. Dall’interno, poi, si sentivano le urla del capotreno che intimava ai viaggiatori di fare presto, di non sostare sui gradini, e altre indicazioni tutte corredate di sbuffi e imprecazioni e toni molto poco gentili.
No. Così era davvero una presa in giro. Carlo si fece un rapido esame di coscienza e non trovò nulla, in quella giornata, che giustificasse un trattamento così meschino nei suoi confronti: non si era fatto il mazzo in quel modo per ritrovarsi a sera su quel treno, in quello schifo. Aveva diritto – diritto! – a tornare a casa in condizioni umane: seduto, senza puzza, senza camminare sul vomito altrui, su un treno che non cigolasse e che non perdesse pezzi. Ne aveva il diritto, la cosa era fuori discussione, e quello che si trovava davanti era un oltraggio che lo portava oltre la sua capacità di sopportazione.
Carlo stava ancora pensando a queste cose, confermando a se stesso il torto subito e incrementando la propria collera, quando scorse al binario 12 un altro treno che entrava in stazione. Il suo volto si illuminò: “ecco com’è un treno che si deve!”, pensò quasi rasserenato. Si precipitò 3 binari più avanti per vederlo più da vicino. Era una meraviglia: elegante, nuovissimo, quasi lucente nella sua imponenza. Arrivò silenzioso quasi viaggiasse sui magneti, frenò senza il minimo rumore e con una delicatezza mai vista prima. All’apertura delle porte, gli assistenti di viaggio si posizionarono di fronte ad esse nelle loro divise impeccabili, e salutavano con un sorriso ciascun passeggero che si apprestava a salire. Carlo si sorprese ad invidiare quei passeggeri: nessuno avrebbe accolto lui con tanto calore e tanta gentilezza; nessuno, sul suo treno, l’avrebbe fatto sentire così importante e desiderato.
Come in un flash, il pensiero della casa sconvolse completamente il filo logico dei pensieri di Carlo, già compromesso dalla stanchezza e dello shock di ciò che aveva appena visto. Improvvisamente si ritrovò a pensare che forse viaggiare su quel meraviglioso treno poteva addirittura essere meglio che essere a casa: era servito, era coccolato, era tranquillo, e soprattutto avrebbe avuto tutto questo subito. Senza attese, senza viaggi, senza ulteriori intoppi. Subito. Valeva davvero la pena di farsi altre ore di viaggio in quelle condizioni disumane che lo attendevano sul treno 219, quando aveva lì a portata di mano qualcosa di paragonabile – se non migliore – della casa a cui voleva tornare? Questo pensiero si fece sempre più strada nella mente di Carlo, e più prendeva forma più lui non trovava altro che conferme di quella nuova idea. In un angolo remoto della sua testa risuonava sempre quel fastidioso ricordo degli insegnamenti ricevuti, quella cosa che l’importante è la meta e non il viaggio, ma improvvisamente si sentì come un cieco che apre finalmente gli occhi: finora l’avevano ingannato. Magari involontariamente, magari con buone intenzioni, ma non gli avevano raccontato tutto. Perché quel viaggio, su quel treno meraviglioso, quell’esperienza unica e stupenda e desiderabile… beh, quello poteva essere la sua meta. Si fermò a ripensare all’ultimo concetto che le sue sinapsi avevano messo insieme, e si sentì quasi come un intellettuale che definisce un nuovo criterio di pensiero: il viaggio è la meta. “Sono un genio!” – si disse scherzando tra sé, ma nemmeno troppo – questo sì che tiene insieme tutti i pezzi! Non devo rinunciare a una cosa bella, una cosa “per me”, in nome della stupida meta. Questa è la destinazione: voglio quel viaggio, e questa è oggettivamente una cosa buona per me. Guarda come sono ridotto, è il minimo a cui abbia diritto, non potrei nemmeno farcela sull’altro treno, sarebbe inutile anche provarci.
Soffocando all’istante qualsiasi replica che la sua parte razionale provava ad avanzare, chiuse il suo dibattito interiore e stabilì definitivamente il da farsi: prese gli ultimi soldi che gli erano rimasti e andò in biglietteria.
Salì sul treno ricevendo gli ossequi dell’assistente che sorridente lo accolse a bordo. Non vedeva l’ora di aver diritto a quel sorriso. Si sedette al suo posto, e reclinò il sedile almeno una decina di volte in tutte le posizioni possibili, compiacendosi di tutto quel lusso a sua disposizione. E quel che più lo faceva godere era l’idea del treno che aveva lasciato, quel ridicolo treno 219 al binario 15: l’idea che quei pezzenti fossero in piedi, sballottati, in mezzo a gente rozza e puzzolente, soffrendo come animali per ore, gli faceva gustare mille volte tanto le comodità che finalmente aveva a disposizione.
Il viaggio fu una delle esperienze più fantastiche che Carlo avesse mai vissuto: assaporò ogni singolo istante, sfruttò qualsiasi comfort che quel meraviglioso treno gli mettesse a disposizione, godette a fondo e a pieno di tutto quanto si era meritatamente concesso. Passarono le ore, e Carlo era davvero soddisfatto. Contento, sereno, rilassato, perfino il suo volto non mostrava più i segni della stanchezza di quell’orribile giornata.
Carlo scese dal treno, che veloce richiuse le porte e spense le luci. Fine corsa.
In una frazione di secondo le cose apparvero a Carlo nella loro tremenda oggettività, e un senso di angoscia indescrivibile si impadronì di lui quasi gettandolo nel panico. Era solo. Al buio. In un luogo che ignorava completamente, non aveva nessuna idea di dove si trovasse, il treno aveva terminato la corsa, e non aveva niente. Perso.
Quella notte Carlo pianse tante lacrime da disidratarsi, si diede dello stupido, del credulone. Lui, sempre accorto e misurato, si era lasciato truffare da un’apparenza scintillante ma priva di sostanza. Proprio lui! Si era fatto fregare come un cretino, e ora era lontano da casa.
Carlo provò a dormire, invano. Le ore passavano e lui era sdraiato in stazione su una panchina di pietra senza poter chiudere occhio. Allora prese una decisione: abbandonò tutti i suoi bagagli salvo lo stretto indispensabile, e si incamminò verso il centro del paese. Lì, dal momento che si trovava in un territorio a lui sconosciuto nel quale non sapeva orientarsi, ad ogni incrocio chiese indicazioni. E procedette, strada dopo strada, chiedendo, a volte sbagliando e tornando indietro, finché – nemmeno lui sapeva quanti giorni aveva camminato – arrivò nella sua città. Distrutto, con i piedi piagati, le ginocchia doloranti e le anche che sembravano staccarsi ad ogni passo. Per non parlare della schiena. Ma era arrivato. Corse verso casa, dove scoprì che i suoi familiari lo aspettavano, sicuri che il suo ritardo dovesse avere un buon motivo, e gli buttarono le braccia al collo ancor prima che entrasse dalla porta.
A confronto di quel viaggio a piedi, immerso nel dolore fisico e nel rimorso dell’errore fatto come un principiante, a confronto di tutto ciò il viaggio sul treno 219 sarebbe stato una favola. Ma ormai non aveva più senso rimuginarci su. Era arrivato a casa. Probabilmente le sue anche non sarebbero mai più tornate come prima, probabilmente avrebbe portato per sempre i segni di quei giorni di cammino sfiancante e precipitoso. Probabilmente mille volte nella vita gli sarebbe ritornato il pensiero che se avesse seguito la sua ragione e il suo cuore, avrebbe preso il treno giusto e sarebbe arrivato subito a casa. Ma non importava: era felice di esserci tornato, anche se l’illusione della scorciatoia aveva reso tutto infinitamente più difficile. E forse quelle anche doloranti avrebbero per sempre funzionato come un campanello di allarme, qualora in futuro si fosse lasciato nuovamente abbindolare da qualche luccicante tentazione.
Quella notte Carlo dormì felice, come non accadeva da tempo.